Svegliarsi a Parigi, al 12 di Avenue Montaigne

Parte 5

 

Sono in linea d’aria esattamente sopra il 12 di Avenue Montaigne. La Tour Eiffel brilla, come fa la notte ogni ora pile. Sulla destra, l’Arco di Trionfo. Il blu intenso intorno alle luci della Défense ne definisce i contorni spezzati. A sinistra la Senna, che la tipica ansa rende protettiva e materna (non per niente è un fiume al femminile, e se poi si pensa che sein vuol dire “seno” …). Sotto la sua ala, la Rive gauche, il Musée d’Orsay e il tetto dorato degli Invalides. Volo altissima, sopra i tetti grigi, ma proprio quando mi sto acclimatando a questo mezzo di trasporto, qualcosa di pesantissimo mi tira per un piede. Oppongo resistenza. Ora anche la spalla sente lo strattone della gravità. E mentre cado, tutto diventa veloce. Qualcuno ha premuto il fast forward (quel tasto dei registratori che da piccola leggevo “fffffv”). Il sole fa capolino dietro di me, illuminando una Parigi che corre più veloce del solito. Il che è tutto dire.

La Défense
Credits: tjws photographies (Flickr)

Ho gli occhi impastati, sono sul freddissimo cemento del marciapiede sdraiata sul fianco destro. Cerco di definire l’immagine che appare dietro la retina, riluttante nella messa a fuoco. Una donna con i capelli biondi quasi bianchi, sulla sessantina. Parla francese ma con un forte accento. “Âlo?” Cerco di alzarmi di scatto, come a negare che sia io quella mezza supina in una delle vie più chic di Parigi. Appoggio istintivamente il braccio destro a terra, ma sono bloccata da un dolore che mi toglie il fiato. “Ha colpito clavicola e piede nel cadere, stia ferma”. Oh che bello, sono caduta davanti al Teatro degli Champs Elysée alla prima dello spettacolo… Aspetta, io ero dietro le quinte con Stravinsky.

Maria Riva
Wikimedia Commons

“Non so cosa mi sia successo, Madame, lo sa lei? Ero a teatro un attimo fa, ha sentito dello scandalo?”

“Bene, straparla pure. Però non mi sembra ubriaca… Signorina, io l’ho vista allontanarsi dall’entrata del Teatro barcollando e cadere dai gradini, però si rassegni che non poteva essere all’interno: sono le 7 di mattina, è chiuso da un pezzo”.

Guardo i vestiti della donna. Direi moderni, per quel che posso capirne. Ormai mi ha preso per matta, tanto vale sfruttare la cosa a mio pro.

“In che anno siamo?”

Perfect, non è ubriaca, ma ha preso forse qualche sostanza… Cos’ha, signorina?”

“Credo di avere un qualcosa a metà tra la sindrome di Stendhal e quella di Mary Poppins, che entra nei disegni a gessetto di Bert. L’ha visto Mary Poppins, signora?”

“Oh ma certo, mia madre è grande amica di Julie Andrews.”

Senti senti.

“Forse è solo intontita, ha preso una bella botta. Mia madre abita proprio qui davanti, al numero 12…”

Esita qualche istante con un viso che lascia intendere che si vorrebbe rimangiare quello che ha appena detto. Poi rilassa i muscoli delle spalle e del collo, e con la mano, che aveva portato alla bocca come a voler bloccare delle parole ormai libere, fa un gesto sciolto sopra la spalla, simile a quando si butta il sale dietro la schiena, e col mento indica il piede.

“No, non credo che un giornalista arriverebbe a far finta di essersi slogato una caviglia per salire a rubare una foto a mia madre”.

Esita, e la mia non insistenza la fa cedere. “All right, whatever, la accompagno su, così la sua assistente la potrà curare. Però non dica una parola, e guai a lei se tradisce la mia fiducia”.

“Lo giuro”.

Ci trasciniamo fino al numero 12. Sembra un hotel di lusso, e data la via non mi attendevo nulla di meno. Arrancando verso l’ultimo piano, la donna rischia di scivolare sull’ultimo gradino, e dalla bocca esce istintivamente un: “Verdammt!

È la terza lingua che le sento parlare. Non posso trattenermi. “Lei è francese, tedesca o inglese?”

Si sistema il ciuffo scombussolato dalla quasi caduta, mi guarda dritta e sospira: “Sono berlinese, naturalizzata americana, e ho vissuto in Francia durante la guerra”.

“La Seconda Guerra Mondiale? Ma è finita da un pezzo… giusto? Come mai non è tornata a Berlino?”

“Se è per questo qualche anno fa è anche caduto il muro, ma devo dare ragione a mia madre, anche se non è facile. Diceva sempre: Resti un berlinese in qualunque altra città del mondo. Per questo un vero berlinese deve lasciare Berlino”. Non fa una piega.

Muro di Berlino
Credits: Brozzi (Flickr)

Finalmente arriviamo davanti alla porta. Apre l’assistente, e dietro scorgo lei, la madre, di spalle. I capelli come la figlia, tanto biondi da sembrare bianchi. Una vestaglia lussuosa e scintillante. È seduta su una carrozzella, e attaccata al telefono parla con grande nonchalance civettuola, una voce rauca e suadente. Si gira, vede la figlia, le si illuminano gli occhi. Liquida garbatamente l’interlocutore.

“Ahh, mia dolce Maria, che belle chiacchiere col mio amico Gorbaciov. L’hanno liberato sai, cara?”

“Lo so, mi chiami tutte le notti per aggiornarmi. So che ti senti sola, ma non vorrei arrivare ancora ai livelli di qualche anni fa, quando arrivavano bollette da tremila dollari al mese!”

Si gira del tutto e finalmente riesco a scorgerne i tratti. È infuriata. Le sopracciglia sono arcuate, lo sguardo ammaliatore, un po’ allampanato e misterioso.

“A partire dalla mia dolce amica Jackie, tutti, dico tutti, tranne te, mia amata figlia, sono orgogliosi di ricevere una mia telefonata. Io sono l’intramontabile diva, l’angelo azzurro, la Madonna e il diavolo, l’unica e immortale femme fatale…

Si alza traballante e fiera, butta giù un bicchierino e lo picchia sul tavolo. Con aria drammatica fissa la figlia, ma lo sguardo è ancora più lontano. Si vedono scorrere nelle pupille i mille cameraman, i registi, i truccatori e i tecnici delle luci che lavoravano davanti ai suoi occhi, che hanno contribuito al mito, scultori silenziosi di un tutto tondo artistico.

“Lili oder Lola, aber immer Marlene”.

[Rendez-vous lunedì prossimo per la Parte 6, e lunedì scorso per la Parte 4]